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La via dei braccianti

per l’occupazione delle terre d’Arneo

 

 
 A cura di Davide Elia, foto Antonio Licciulli  
 

.Premessa

di Davide Elia

L'Arneo è un vasto territorio posto all'estremità nord-occidentale della provincia di Lecce, un tempo occupato principalmente da macchia mediterranea e pascoli. Dopo la seconda guerra mondiale, il latifondo dell'Arneo, una realtà ormai anacronistica, venne reclamato da una moltitudine di braccianti dei paesi vicini che chiedevano terra, pane e lavoro.

L'occupazione delle campagne, la dura repressione delle forze dell'ordine, i successivi processi fecero da preludio alla vittoria finale, con l'assegnazione delle campagne ai contadini. I cicloamici hanno ripercorso alcuni dei luoghi principali di quell'epopea partendo da Veglie, come i braccianti che partirono in bici per andare ad occupare le terre.

Foto: Davide Elia, ideatore e capogita di questa indimenticabile escursione a colloquio con un pastore all'interno della pista di prova di Prototipo

 

 

Scheda percorso

La via dei braccianti per l'occupazione delle terre d'Arneo

Percorso il 4 Novembre 2007

Ripercorreremo alcuni dei luoghi principali di quell'epopea partendo da Veglie, come i braccianti che partirono in bici per andare ad occupare le terre. Ci dirigeremo verso l'Arneo lungo la strada vicinale "Sferracavalli". La prima tappa sarà Monteruga, un tempo fiorente insediamento agricolo, oggi villaggio disabitato. Imboccheremo la "via dell'acquedotto" verso ovest, per inoltrarci poi nella campagna racchiusa entro l'anello di Nardò (pista Prototipo). Usciti dal lato opposto della pista, visiteremo i luoghi che furono teatro degli scontri tra i braccianti e l'esercito al tempo delle lotte contadine dell'Arneo, nei primi anni '50. Da qui raggiungeremo la masseria Santa Chiara, dove consumeremo il pranzo a sacco. Risaliremo verso Nord in località "Case Arse", e ritorneremo poi per il tracciato dell'acquedotto, fino ai serbatoi di località "Zanzara" da cui si può ammirare uno splendido panorama. Rientreremo infine a Veglie attraverso le campagne a sud del paese. Sistemate le biciclette nelle auto, con queste ultime raggiungeremo Copertino, dove presso la Fondazione Moschettini verrà proiettato "L'Arneide - Lo Stato fa la guerra ai contadini", di Luigi Del Prete, film-documentario sulle lotte dell'Arneo.

Raduno e Partenza: Ore 9,00Veglie, Piazza della Costituzione (inizio via del mare);

Percorso: 45 km circa;

Difficoltà: media per distanza e presenza di sterrati;

Assicurazione : 2 € come contributo per quota assicurativa;

Info capogita e prenotazione: Davide Elia - e-mail davide.elia@le.infn.it - cell 328.4175366, http://salentoinbici.altervista.org

Dotazioni: acqua, pranzo a sacco, dotazioni standard per combattere eventuali forature e freddo/pioggia.

Orario previsto per il rientro: ore 16:00.

Il percorso è interamente costituito da percorsi rurali o da brevi tratti di strade provinciali caratterizzati da scarso traffico. La presenza di alcuni lunghi tratti di sterrato suggerisce l'uso della mountain bike

Foto: i cicloamici lungo il viale di eucalipti che porta a masseria Casa Arse

  

Monteruga

Pensata come una comune agricola nel ventennio fascista è stata abitata fintanto che l'attrattiva della città e la comodità delle auto spopolò la campagna salentina.

Frazione di Veglie, tipico esempio di villaggio dell’Ente Riforma, è stato abitato dagli anni ’20 agli anni ’80, contando una popolazione di alcune centinaia di unità. La storia di Monteruga come centro abitato termina con la privatizzazione dell’azienda agricola; restano, a testimonianza di un recente passato, gli alloggi, la scuola, la piazza centrale, chiesa.

Foto: Masseria Monteruga imponente complesso architettonico concepito nel periodo fascista come una comune agricola

  

Il rogo delle biciclette

Furono sequestate ai manifestanti e incendiate 150 biciclette.

Nel dicembre del 1951 i contadini si riunivano nelle campagne dell'Arneo per protestare e reclamare la terra. Fino a tremila contadini confluivano dai paesi di Nardò Carmiano Leverano. Centinaia di poliziotti furono chiamati a disperderli con lacrimogeni e fucilate. Dispersi dalle fucilate i contadini tornavano a riunirsi usando le loro biciclette. Negli anni 50 la bicicletta era una risorsa preziosa per i braccianti. Il modo con cui raggiungere i latifondi distanti decine di chilometri dove avrebbero trovato lavoro. Incendiare le biciclette fu un atto vile che avrebbe messo alla fame le povere famiglie dei braccianti.

Foto: I cicloamici commemorano il rogo delle biciclette proprio nel luogo dove le forze dell'ordine arsero le bici dei braccianti.

 

La Pista ciclabile sull'acquedotto dell'Arneo

La strada di manutenzione dell'acquedotto dell'Arneo, chiusa alla macchine è una naturale e inconsapevole pista ciclabile. Ancora una volta la regione Puglia potrebbe guadagnare decine di chilometri di piste ciclabili a costo zero. Ma la stupidità ...

Foto: L'imbocco della strada di manutenzione dell'acquedotto dell'Arneo.

 

.Pista Nardò techical center

Già pista Sasn-Fiat e poi Prototipo, venne realizzata negli anni Sessanta in sostituzione di un progetto precedente che prevedeva, in quella zona, la possibilità di impiantare un "protosincrotrone", vale a dire un acceleratore di particelle. E’ nota anche come “Anello di Nardò”, dal momento che cade nel territorio di quest’ultimo comune, pur distando circa 22 km in linea d’aria da questo paese. Questo circuito è normalmente impiegato dalle principali case automobilistiche per prove sperimentali su nuovi veicoli. La caratteristica che lo rende unico nel suo genere è la conformazione a cerchio (di 4 km di raggio), unita ad un’inclinazione del manto stradale tale da ottenere la compensazione dell’accelerazione centrifuga per velocità comprese tra 90 e 240 km/h. In questo intervallo, dunque, il circuito è virtualmente un infinito rettilineo.

Foto: I cicloamici attraversano il sottopassaggio che conduce all'interno del cerchio del circuito di prova. Parte dei terreni all'interno del circuito è ancora adibito, come nel passato a pascolo

 

.Masseria Santa Chiara

Masseria Santa Chiara è posta in territorio di Arneo, a circa metri 30 s.l.m.
Il territorio circostante è adibito a colture (soprattutto vigneti e serre). La masseria prende il nome dal monastero di Santa Chiara di Nardò al quale apparteneva. La masseria originaria, con torre rinascimentale e ambienti rustici annessi, risulta rimaneggiata alla fine dell' 800, con la costruzione di un nuovo plesso neoclassico. La torre costituisce l'elemento attorno al quale in varie epoche è stato innalzato il resto del complesso masserizio. In passato, essa era dotata di scala esterna e ponte levatoio ed era accerchiata da un ballatoio poggiato su contrafforti. Attualmente la torre, separata dai rustici e da un forno dal resto del complesso masserizio, appare con contrafforti all'esterno e piombatoi in asse con le finestre. Il piombatoio posto a sud-est accoglie uno stemma circolare con incisa una croce greca

 

Foto: Torre di Masseria Santa Chiara. Le caditoie raccontano delle notti di ansia vissute nella paura dei saccheggi dei pirati turchi

 

L'Arneide, lo stato fa la guerra ai contadini

Parte integrante dell'escursione è stata la visione del film L'Arneide ispirato all'articolo di Vittorio Bodini

 "L'Arneide”, del regista Luigi Del Prete, deve il suo titolo ad un articolo di Vittorio Bodini ed è il racconto della straordinaria stagione di lotte dei contadini poveri e dei braccianti del Salento nel secondo dopoguerra. Tra il 1949-1950 ed il 1950-1951 migliaia di contadini si mossero per occupare le terre del comprensorio dell'Arneo. Questo toccante documentario è il racconto di quel periodo, con le testimonianze dirette dei protagonisti sopravvissuti.

 

 

«L'Arneo è un grosso bubbone sull'incrocio delle tre province che formano il Salento: Lecce, Brindisi e Taranto. Ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni, la parte maggiore, e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva d'acqua, di comunicazioni e di ogni altro segno umano che non siano i cartelli di caccia riservata rientra nella Provincia di Lecce».

Vittorio Bodini 1951

L'Arneide

Il racconto del rogo delle biciclette e delle lotte contadine del 1951 dalla penna di Vittorio Bodini che fu testimone dei fatti in prima persona.

Terra coltivabile! - dice il mio compagno. Siamo nascosti dietro un muretto, fra l'ultimo raggio d'un sole di gennaio che spalma sull'orizzonte una tenera pomata color sangue e il viottolo su cui è passata la motocicletta coi due carabinieri che ci cercano. Siamo in una landa macchiosa che ci circonda a perdita d'occhio, tutta groppe ispide come d'una sterminata mandria di bufali. Solo verso oriente una striscia di sole rimbalzando su un rialzo di terra scopre una piccola costruzione abbandonata, deve essere la torre del Cardo, dove dicono vi sia un tesoro sotterrato.

L'abbandono dei luoghi, che furono fino a un secolo fa ricetto di briganti, e la miseria profonda dei paesi che vivono intorno all'Arneo sono buon alimento a simili leggende. Ancora oggi l'Arneo potrebbe essere la scena per un nuovo Giuliano, che oltre alla topografia favorevole potrebbe contare sull'appoggio della popolazione.

Se è quella la torre del Cardo, è di là che fece la sua comparsa l'aeroplano che coadiuvò le forze di polizia nell'attacco del primo gennaio contro i contadini. Il ministro Pacciardi ha smentito la notizia dell'aeroplano. Non potendosi supporre che egli non conosca l'uso che si fa degli apparecchi militari, e poiché la smentita non potrebbe essere a sua volta smentita senza dare di bugiardo al ministro della Difesa, non resta che ritenere bugiarde quelle migliaia di persone che lo videro e ne seguirono le evoluzioni nel cielo dello scontro.

Ma aeroplano o no, militare è stata dichiarata per dieci giorni la zona dell'Arneo, e una gior­nalista romana penetratavi due giorni fa è stata fermata e por­tata a Lecce, col suo fotografo. Gli italiani non devono dunque sapere cosa avviene quaggiù? Ma abbiamo un nuovo problema per il Ministero della Difesa: i carabinieri che abbiamo incontrato sulla contrada di Carignano Piccolo sono comandati da un ufficiale dell'esercito.
Un trenino di tre vagoni, coi balconcini dietro, come nei western dei pionieri, ci porta alle otto del mattino a Salice: ultimo punto che si può raggiungere in ferrovia verso questa parte dell'Arneo. È con me il corrispondente di un giornale romano.

L'Arneo è un grosso bubbone sull'incrocio delle tre province che formano il Salento: Lecce, Brindisi e Taranto. Ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni, la parte maggiore, e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva d'acqua, di comunicazioni e di ogni altro segno umano che non siano i cartelli di caccia riservata, rientra nella provincia di Lecce: 28.000 ettari, di proprietà quasi tutti del senatore Tamborrino. La popolazione del Leccese è tutta ammucchiata e compressa dal lato dell'Adriatico; sul ver­sante ionico, da Nardò fino a Taranto non c'è nulla, c'è l'Arneo, un'espressione vagamente favolosa, come nelle anti­che carte geografiche quei vuoti improvvisi che s'aprivano nel cuore di terre raggiunte dalla civiltà. Da notare che Tamborrino, e ora i suoi figli a cui le ha intestate, non paga­no tasse per queste terre considerate improduttive.

A Salice prendiamo una vecchia corriera in cui sono pigiati quindici contadini e un bambinuccio di pochi mesi infagottato in uno scialle celeste. Sono piccoli agricoltori delle province di Brindisi e Taranto che vanno, dicono, a Veglie a ordinare i mobili per una sposa. È strano che lo facciano in tanti. Appena sentono parlare di Arneo si chiudono in un mutismo diffidente. Solo un vecchietto dal viso quanto una mela dice che loro l'Arneo lo conoscono solo per le tasse che gli fanno pagare: - Paghiamo per la bonifica che non s'è mai fatta e per la strada da Jaco Rizzo a Porto Cesareo finita già da quattro anni. Non so quanto paghiamo, è tutto scritto sulle cartelle della Fondiaria.

Da quanti anni pagate? Da quando ero così grande - dice il vecchio indicando il neonato.
Veglie: diecimila abitanti, un'aria da paese greco; la corrie­ra deve fermarsi e aspettare un passaggio di capre, poi di donne vestite di nero che escono dalla chiesa portandosi appresso la sedia di casa. Le ragazze sono vestite di flanellina rosa, con le calze di lana nera fatte a mano. Sulla piazza sono riuniti gli uomini in capannelli. Per un comizio che vi hanno tenuto ieri sera, il Prefetto ha ordinato la chiusura per quindi­ci giorni del cinema Trento e Trieste. È il mattino dell'Epifania: a molti di questi uomini le feste hanno portato quest'anno la perdita del loro unico bene: la bicicletta.
«È la cosa più atroce che si poteva fare a un figlio di mamma!» ho sentito dire da più d'uno che avrebbe preferito perdere un figlio. Un figlio lo si sostituisce fin troppo presto, ma la bicicletta distrutta significherà migliaia di chilometri a piedi e notti passate nella nuda campagna, anche d'inverno.
All'uscita da Veglie brulicano le vigne come un fumo ros­sastro e sotto gli ulivi è una festa di pratoline bianche o gialle. Queste terre facevano parte anch'esse dell'Arneo, a cui sono state strappate, e mostrano una terra rossa e succosa. A Monteruga basta guardare da lontano il gruppo di case rosse della SEBI per rendersi conto che è un gioiello d'azienda. La macchia comincia bruscamente alle Case Arse: di colpo la campagna perde la sua aria di gentile pazienza e nonostante la mite mattinata invernale si fa ingrugnita e selvatica. Dei car­telli avvertono che è zona di caccia riservata. Riservata, pos­siamo aggiungere, a non più di cinque o sei nomi di feudata­ri. Le schegge che ricoprono il letto della strada schizzano con­tro i parafanghi: qualche gazza bianca e nera che cercava chis­sà che cibo fra le pietre si alza in volo. Non abbiamo visto per oltre quindici chilometri che un cacciatore e tre vacche. Ma ecco all'entrata di Carignano Piccolo un uomo su un calessi­no, il fucile fra le ginocchia e mezzo sigaro in bocca. E il fattore di Tamborrino. - Tutto calmo, grazie a Dio. Ormai non c'è più niente da fare per quei facinorosi. - L'avete visto, voi, l'aeroplano? - Io no. Ma l'hanno visto in molti. - Credete che ci sia veramente disoccupazione fra i contadini? - Ce n'è, ma se sono disoccupati vuol dire che non sono degli agricoltori veri. Gli agricoltori veri la terra ce l'hanno - dice con disprez­zo. - Ma è vero che Carignano Piccolo è tutto terra incolta? - Nossignore. - Cosa c'è? - Coltivabile e boscaglia. - Ho capi­to. E alle Fattizze? E a Cola Rizzo? - Lo stesso.Sul sentiero per Carignano incontriamo due pattuglie di carabinieri. Il comando è su una salitella da cui ci viene incon­tro un tenente, mentre una trentina di carabinieri che gioca­vano a pallone, alla vista dell'automobile, si dispongono in squadra e fanno evoluzioni militari. - Questa è zona militare - dice l'ufficiale restituendoci i documenti. - Dovete uscirne immediatamente. - Ma voi siete ufficiale dell'esercito! - Sono in esperimento - risponde un po' sconcertato. - E l'esperimento procede bene?

Ci fa cenno di andarcene. Tornati sulla strada il medico di Veglie che ci ha accompagnati con la sua macchina non vuoi saperne di continuare. Siamo a una ventina di chilometri dal più vicino paese, ma scendiamo lo stesso, col rischio di non trovare un mezzo per il ritorno. A Boncore le macchie messe in coltivazione dai contadini dopo l'occupazione dell'anno scorso danno un grano già verde, alto cinque dita, che trema al vento sulla terra rossa, e hanno aperto una piccola cava. Cominciò un anno fa di questi tempi la lotta dei contadini per la redenzione della parte incolta dell'Arneo. Dopo diversi giorni di occupazione e di scontri con la polizia ottennero la promessa di 4.500 ettari da parte dei proprietari e del Prefetto. Se ne distribuirono 890, poi tutto si arenò. A distanza giusta di un anno i contadini son calati di nuovo sull'Arneo il 27 dicembre ultimo. Tremila braccianti provenienti da tutti i paesi limitrofi: Nardò, Carmiano, Leverano, Veglie. Strappo un filo di grano e lo metto fra i denti: è il primo frutto d'una terra riscattata al più stupido feudalesimo. Ecco là di fronte, come un termine di confronto, una boscaglia di ulivi selvatici ai cui piedi si aggroviglia la fratta. Tre carbonai di Calimera la stanno disboscando per ordine di Tamborrino, per non lasciarvi nulla, nel caso che i carabinieri non riescano a con­servargliela. I carbonai in questi giorni sono stati mandati via e hanno ripreso oggi. - Perché proprio oggi che è l'Epifania? - Stanotte si sono ritirati i contadini che occupavano il bosco su Cola Rizzo -. Li lasciamo e troviamo un uomo nella fratta. Ci stava spiando. - Dov'eri il primo dell'anno? - A casa mia, a passare la festa con la famiglia. - È vero dell'aeroplano? - L'ho visto coi miei occhi. Era bello grande, e tutto scuro. Spuntò da dietro la torre del Cardo e stette un'ora girando anche a bassa quota e segnalando la zona. - Allora eri qua? - Sì, ma ora non vi dico più nulla. - Nemmeno dove stanno i resti delle biciclette bruciate? - Li hanno portati alle Fattizze. Erano una sessantina. Centocinquanta biciclette sono state portate a Lecce. Per andare alle Fattizze occorre passare da Carignano, davanti ai carabinieri. Risolviamo di arrivarci dalle spalle. Dopo un'ora di cammino ci imbattiamo in quattro ragazzine che raccoglievano ulive selvatiche cadute dagli albe­ri. Potevano avere fra i dieci e i dodici anni, magre, vestite d'una gonnellina lacera e di scialletti colorati, la bocca tutta orlata di nero. Ci mostrano i sacchetti dove tengono le ulive, piccole e vizze, tutte nocciolo. - Non abbiamo ancora fatto cinquanta lire di ulive da stamattina. - Fra tutte quattro? E tu, perché ne hai così poche? - Aveva fame e se l'è mangiate - dicono le altre ridendo.

È con loro un ragazzo che torna dalla cava. Ci mostra il permesso per entrare all'Arneo: è firmato dal commissario della Democrazia Cristiana di Veglie. Tamborrino, Democrazia Cristiana, Polizia, Esercito: che stra­na mescolanza di poteri sull'Arneo! Il foglio attesta che il gio­vanotto non è iscritto ai «compagni». - Hai visto l'aeroplano? - Sì, fece due fumate proprio qua sopra -. Gli offriamo denaro per farci da guida alle Fattizze; esita un po', poi rifiuta.
- State attenti - ci grida una delle ragazze mentre ci allon­taniamo. - Ieri è passato di qua un cristiano ben vestito, portava persino gli occhiali, e lo hanno messo in caggiòla.
Raggiungiamo la cava e una casupola, a cui ci affacciamo. Un giovane dal viso intelligente si alza da una brandina, infila le scarpe e ci invita a entrare. - Sì, ho visto ogni cosa ci dice. - Il giorno 27 dicembre ero sulla cava. I contadini sbucarono all'improvviso da tutte le parti. Uscivano dai cespugli come gli indiani quando fanno la guerra. Saranno stati tremila. Si accamparono tutt'intorno. Io rimasi qui dentro fino al pomeriggio, poi pensai: perché dovrebbero farmi del male? Uscii, stavano mangiando. Mi invitarono, ma mi parve brutto togliergli cibo a loro che lo avevano misurato per rimanere qui. Accettai mezzo finocchio per far vedere che gradivo. Il giorno seguente i carabinieri spararono e gettarono bombe lacrimogene. I contadini si dispersero e tornarono subito, e tutto rimase tranquillo fino alla mattina dell'ultimo dell'anno. Quel giorno trecento carabinieri di rinforzo arrivarono e restarono rinchiusi tutta la mattina nella casa di Carignano. Uscirono il pomeriggio a gruppi di due o tre, mescolandosi ai contadini e spargendo la voce che il governo era dalla parte dei braccianti; che quel giorno era Capodanno e loro la notte se ne sarebbero andati. E così fu. Allora i contadini fecero la legna perché si scaldassero i carabinieri che erano rimasti a Carignano, poi se ne andarono quasi tutti a passare fine d'anno in famiglia. Qui ne rimasero solo due o trecento. All'alba venne l'aeroplano, un trimotore grigioscuro, e fece segnala­zioni, poi i carabinieri, che avevano finto di andarsene, piom­barono sui contadini e cominciarono a picchiarli col manga­nello e col calcio dei fucili. Durò parecchie ore, perché i contadini dopo che si erano dispersi tornavano di nuovo. Alla fine ne rimasero una quarantina, dei più disperati, che vole­vano riprendersi la bicicletta. Li arrestarono e li picchiarono. Sulle strade intanto altri carabinieri prendevano quelli che tornavano dai paesi. Poi si alzò un fumo, ed erano le baracche, le robe e le biciclette dei contadini che i carabinieri facevano bruciare. - E ora? Credete che torneranno ancora? - Così ho sentito dire. Dicono che verranno con quelli di Taranto e di Brindisi.

Ecco come degli uomini hanno passato la notte di san Silvestro del mezzo secolo. A quest'impari lotta, come idoli indolenti assistettero le vacche del senatore Tamborrino. Sono vacche grige e lustre, dalle corna larghe e l'andatura impudi­ca: le statistiche ne danno una per chilometro quadrato. Andiamo ancora per macchie, per terra rocciosa, per pascoli, poi le Fattizze, dove riusciremo a trovare pane nero e ricotta, ma non i resti delle biciclette. Anzi arriva una pattuglia in cerca di due giornalisti e bisogna filare e nascondersi nella macchia. Sulla cava il fratello del cavamonti ce ne conferma il racconto. Vide l'aeroplano. Gli mostriamo il giornale con la smentita di Pacciardi. - Il ministro non può fare che io non l'abbia visto -. Mi sembra un uomo sincero, come il fratello, e mi dispiace di doverlo considerare, sia pure solo ufficial­mente, un bugiardo. Ci mostra in lontananza il pozzo dove i carabinieri bruciarono le biciclette; i resti li portò via in tre viaggi di carro il guardiano delle vacche di Tamborrino. Troveremo il guardiano dietro un muretto. L'ombra comincia a scendere nel sottobosco, e le pietre prendono un'aria di teschi di animali preistorici. Non è proprio al pozzo che sono state bruciate, ma un po' prima, presso il «paretone». C'erano trecento metri da fare, alla vista d'una decina di carabinieri che giocavano a pallone. Servivano da porte due coppie di ulivi selvatici, ma c'era qualcosa di strano nel loro modo di giocare: inseguivano il pallone burberamente, come se rappre­sentasse ai loro occhi una illegalità da punire.
Arriviamo carponi dove il terreno è tutto coperto di segni dei feroci falò. Si vedevano forme intere di pani carbonizzati, cocci di bottiglie, brandelli di coperte e cappotti. Pare che fra gli arrestati trovarono anche bottegai di paesi vicini: - E voi che c'entrate con l'occupazione delle terre? - Qualcuno bisognava pure che gli desse da mangiare. Questi ci devono tutti dei soldi. Chi settemila, chi sei, chi cinque, chi tre. Sono brava gente, non potevamo farli morire di fame. Se avessero ottenu­to un po' di terra da lavorare ci avrebbero pagato i debiti.
Ecco il falò delle biciclette: fra le ceneri si vedevano ancora pompe contorte, pezzi di campanelli e del cuoio dei sellini. Perdemmo dieci minuti per fare una fotografia che doveva risultare inservibile per la stampa. L'ultima luce del giorno sembrava si fosse tutta rifugiata, e impazzita, nel mirino della macchina. Avvolsi i resti di quattro pompe in un giornale che avevo in tasca, e in cui si diceva che i contadini si erano bruciate essi stessi le biciclette. Bisognava tornare a Veglie, quasi venti chilometri a piedi. Non incontrammo per via che un biroccino di zingari da cui penzolavano un mucchio di gambe di bambini addormentati.

Era un magnifico luogo da delitti! Improvvisamente una lanterna accesa fra gli alberi ci guidò a una masseria. - Paesano! - gridai avvicinandomi. La lanterna si spense. Nessuno rispose. - Sta' attento. Torna indietro - gridò il mio compagno. Partì uno sparo e la palla fischiò fra le foglie a un metro dal mio cappello. Ci mettiamo a correre, con tutta la stanchezza della giornata. Veglie: un caffè doppio e alle otto di sera né un mezzo per tornare né un albergo. Contrattiamo per un furgoncino, ma arriva un tale e fa un segno al padrone; ci dice che non può essere, che non funzio­nano i fanali. Poi vengono tre contadini e dicono che ci troveranno loro il mezzo.

Usciamo dal bar, arrivano altri tre uomini e ci portano via ai primi. Ci portano in una stanzuccia male illuminata, piena di contadini e cominciano a interrogarci. Che cosa siamo andati a fare sull'Arneo? Cosa cercavamo? Erano già al cor­rente d'ogni nostro passo.
- Come possiamo fidarci di voi? Qui è ogni giorno un nuovo trucco per arrestare i nostri compagni -. Allora io cominciai a scartare il pacco sul tavolo: - Ecco qua -. E mostrai i quattro tubi scontorti dal fuoco. Non li guardavo in faccia, ma sentivo nell'improvviso silenzio la loro commozione, come se avessi mostrato i cadaverini dei loro figli. Ci fu uno scoppio d'ira.

- Maledetti! Ma perché una cosa così stupida? Se avessimo avuto armi e ce le avessero bruciate! Ma le biciclette per andare a lavorare! - Non è stata una cosa stupida. È stata una cosa furba. Non c'era nulla di più perfida­mente efficace per colpirli dritto al cuore. Ma i fanali del fur­goncino s'erano messi a funzionare. - Ci dispiace di ciò che penserete di noi per l'accoglienza fattavi - mi dissero mentre partivano. - La prossima volta che ci andate fatecelo sapere in tempo. Veniamo con voi.

Vittorio Bodini