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Il titolo di questo percorso si ispira ai pergolati di vite che i contadini della Valle d'Itria intrecciavano davanti alle porte delle loro abitazioni. Abbiamo voluto dimostrare quanto sia stretto e antico il vincolo che unisce la vite all'uomo, in special modo nella Valle d'Itria
L'itinerario Domenica 26 settembre 2004, i pochi di noi che non si sono lasciati intimidire dal tempo nuvoloso e dalle minacce di pioggia, si sono ritrovati nel luogo prefissato per l'appuntamento (cava Montedoro sulla SP Ceglie_Martina) per dare inizio al percorso perigoloso dedicato alla vite nella Valle d'Itria realizzato in concomitanza dell'iniziativa "Benvenuta vendemmia" organizzata dall'associazione turismo del vino.
Abbiamo approfittato della squisita ospitalità di Orazio per parcheggiare le auto nel piazzale del frantoio Sisto, che presto sarà meta di un percorso dedicato all'olio, per ora accontentatevi di vedere la nostra foto scattata sul cortile di accesso al frantoio. Visita all'azienda Santoro Nemmeno il gusto di fare qualche pedalata che già eravamo arrivati all'azienda vitivinicola agrituristica Santoro dove veniamo accolti dal proprietario: Marco Emilio Santoro. Marco discende da una famiglia che da 5 generazioni coltiva la vite e vinifica nella valle d'Itria, dopo aver speso la giovinezza all'estero a studiare marketing e lingue e dopo vari anni di esperienza in varie cantine sparse sul territorio nazionale ha deciso di contribuire a dare un seguito alla tradizione di famiglia. Si è dotato di una piccola cantina di tutto rispetto dotata di pressa pneumatica per la spremitura soffice delle uve, di cisterne in acciaio inox, di un sistema filtrante e di una sfavillante macchina per l'imbottigliamento che ci ha mostrato con particolare dovizia di particolari facendo trasparire il suo orgoglio per il suo nuovo acquisto.
Marco trasforma in vino l'uva che raccoglie dai suoi 5 Ha di vigneto delle varietà: Verdeca e Bianco d'Alessano (classiche di questa zona) Marchione e Cucciguaniello (selezinate da accessioni autoctone) e cultivar internazionali come il Cabernet Sauvignon. I primi impianti sono stati realizzati a tendone, per sfuggire al più temuto nemico del viticultore martinese: il gelo di fine primavera. Gli impianti successivi sono stati realizzati a spalliera, metodo che si è imposto per il più contenuto fabbisogno di manodopera.
Vigneti lungo il canale dell'acquedotto Proseguendo dritti dall'azienda Santoro si arriva all'incrocio Galante sulla Martina Ostuni da dove abbiamo imboccato il canale dell'acquedotto. Come al solito Antonio si è voluto fermare al centro induista a dispetto della mia ansia didattica. Se non mi è stato possibile evitare la sosta nella realtà permettetemi almeno di saltarne la descrizione in questa pagina virtuale anche perchè il centro sarà la meta dell'escursione di domenica 16 ottobre (2004). Il percorso scelto si è dimostrato particolarmente attinente all'argomento che si voleva trattare infatti il territorio attraversato dall'acquedotto subito dopo Ostuni ha conservato molte tracce della viticoltura di inizio secolo. I vigneti visibili oggi sono solo quelli che si sono salvati dalla politica comunitaria che ha favorito lo svellimento dei vigneti per ridurre le eccedenze di vino dell'UE e dall'inesorabile riduzione dei prezzi alla produzione dell'uva, inoltre i pochi vigneti ad alberello ancora visibili sono condotti da vecchi agricoltori spesso senza ricambio generazionale. I vignaioli che abitavano i trulli delle campagne fra Cisternino, Martina e Locorotondo si trasferivano in campagna a fine aprile proprio in corrispondenza della ripresa vegetativa della vite. Provvedevano alla rincalzatura del terreno (si chiudevano le buche che erano state aperte a Novembre) e nel frattempo provvedevano alla semina del pomodoro e alle altre faccende agricole. La vendemmia a fine settembre chiudeva il periodo dell'anno che la famiglia contadina trascorreva in campagna, per questo a volte la cisterna dell'acqua piovana ormai vuota era usata per contenere il mosto. E' questo il caso di uno dei trulli che incontriamo sulla strada. Sul palmento ricavato da uno spiazzo in pietra leggermente inclinato si pigiava l'uva, il mosto veniva convogliato verso l'imbocco della cisterna. I residui della pigiatura erano ulteriormente pressati con un torchio.
Pedalando pedalando sbuchiamo proprio di fronte alla scuola agraria di Locorotondo che tanta parte ha avuto nel miglioramento della viticoltura locale anche attraverso l'introduzione di vitigni destinati a migliorare le qualità del bianco Locorotondo come il Fiano. . La cantina del Locorotondo DOC
Un temporale improvviso ci costringe a rifugiarci sotto i balconi. Per fortuna dura poco e riprendiamo a pedalare verso la cantina del Locorotondo. La cantina da presenta come un'enorme costruzione in pietra, ci chiediamo se sia stata completamente realizzata ex novo oppure esisteva già, ci spiegano che in massima parte è di nuova realizzazione ma esisteva già un impianto abbastanza imponente.
Assaggiamo tutti i vini della cantina e, sebbene ne assumiamo piccole quantità, ci sentiamo tutti un po' brilli, nonostante tutto seguiamo con attenzione la coinvolgente presentazione della cantina accompagnati dal tecnico. Ci viene spiegato in modo chiaro ed efficace... come solo chi ha padronanza della materia sa fare come avviene il processo di vinificazione dal conferimento delle uve alla spremitura soffice delle uve bianche, alla fermentazione alcolica. Ci vengono svelati anche alcuni segreti della fermentazione carbonica per l'ottenimento del vino novello e i processi chimici che avvengono nel corso dell'affinamento in botte di rovere.
Torniamo a Martina e finalmente io do sfogo alla mia ansia didattica presentando ai poveri astanti il mio papiello sugli aspetti botanici e storici della vite. Per chi avesse ancora voglia di leggere il materiale è stato riportato nella colonna affianco.
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La specie Vitis vinifera è originaria della regione compresa fra il Caucaso meridionale, l’Armenia e l’Asia Minore, una regione abitata dall’uomo fin da tempi antichissimi Per l’uomo primitivo intento a cacciare selvaggina e a spostarsi al seguito dei branchi di grandi erbivori la vite era solo una pianta come tante altre capace di dare frutti di cui cibarsi. Circa 10.000 anni fa l’uomo del Neolitico si interessa alla coltivazione delle piante spontanee capaci di dargli sostentamento e abbandona il nomadismo per darsi una organizzazione stabile. La vite, sebbene preceduta da farro, spelta e orzo (ben più necessarie alla sopravvivenza) rientra ben presto fra le piante coltivate dall’uomo grazie al fatto che, come i tuberi, anche il tralcio della vite se interrato è capace di radicare e emettere germogli. .
L’uomo aveva già osservato che i cereali si conservavano sino al raccolto successivo se sistemati in grandi pozzi scavati nella terra; questo deve aver sollecitato la sua fantasia a conservare anche i frutti dolci della vite i quali però invece che marcire manifestarono presto il prodigio della fermentazione e la nascita del primo vino.
Quando l’uomo si accorse della capacità del vino di dare ebbrezza, di alterare lo stato di coscienza, di determinare una esplosione di vitalità, non solo da impulso alla coltivazione della vite ma fa entrare la vite nel mito considerandola un dono di Dio all’uomo. Il vino secondo greci ed Etruschi contiene l’essenza del dio stesso e genera la comunione dell’uomo con il dio. A tal proposito va ricordato che nel mito greco la vite nasce dalle ceneri di Dioniso. Presto l’ebbrezza suscitata dal vino viene creduta uguale all’ebbrezza musicale, per cui Dioniso diventa dio della musica orgiastica. Per gli Ebrei la vite diventa il simbolo dell’Antico Testamento, simbolo profetico del Cristo e simbolo dell’antico Testamento, il simbolo di Israele. “Noè, agricoltore “ dopo il diluvio universale “cominciò a piantare delle viti, bevve del vino e si ubriacò”. Il monte Ararrat su cui la bibbi riporta l’impianto di questa vigna corrisponde al centro di origine della specie. Per quello che è scritto nelle Sacre scritture che risalgono a circa 7 secoli prima di Cristo, il popolo ebraico ha un’alta considerazione per la vite e il vino e dispone di produzioni abbondanti. .
E’ sicuramente l’Egitto con la sua documentazione risalente al IV millennio a.C. a fornisci le più antiche testimonianze sul vino (semi di uva sono stati ritrovati nella tomba del re Menes Narmer 3100°.C.). In Egitto manca la vite spontanea ma viene importata con le varie spedizioni dall’Asia e dai Paesi Semitici. Gli Egizi conoscevano molte pratiche enologiche per produrre e conservare il vino, come la torchiatura del mosto dopo la fermentazione, i travasi frequenti, la chiarificazione ed il taglio. Il vino era sistemato in anfore lunghe con 2 manici e collo stretto, ch evenivano chiuse con un tappo di argilla o di gesso e lasciate invecchiare a volte anche per 2 secoli. Sulla pancia dell’anfora lo scriba scriveva l’annata, il vitigno, la località della vigna il nome del proprietario e quello del responsabile della vinificazione
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La lingua etrusca sembra derivare dalla lingua dei Lidi (antico popolo che abitava nei pressi dell’area di differenziazione primari della vite). Da ciò alcuni storici deducono che la civiltà etrusca sia derivata da un insediamento dei Lidi. Se questa ipotesi dovesse essere vera sarebbe molto probabile che siano stati loro e non i greci a portare la vite e il vino nella penisola Italica. .
Il popolo di Israele che aveva una sua fiorente viticoltura inizia. l’esportazione del vino verso i mercati fenici già nel X secolo a. C. Tra l’altro il popolo giudaico produce vino in abbondanza e ne consuma con moderazione: il vino è permesso ai ministri del culto e nelle libazioni sacre; il popolo ne beve solo alla sera mentre a mezzogiorno, abitualmente, consuma una bevanda d’orzo simile allo zithos egiziano. La stessa costruzione del tempio di Gerusalemme è legato al commercio del vino con i Fenici: per venti anni il re Salomone fornisce al re di Tiro vino, grano, orzo ed olio in cambio del legame pregiato delle montagne del Libano. Il legno era la grande ricchezza dei Fenici ed offriva loro la materia prima per la costruzione di barche e navi per poter affrontare il mare. Per sopperire alla scarsità di terra fertile della loro regione i fenici diventano abili commercianti di porpora, vetro (soffiato e trasparente) e vino in parte prodotto in Siria e Palestina in parte comprato dagli israeliani. Il monopolio delle rotte del mediterraneo porta questo popolo a fondare porti e città lungo tutta la costa africana, in Assiria, Grecia, Germania, Sardegna e Sicilia e forse la stessa egnazia. Anche i Greci si specializzarono nel commercio del loro vino particolarmente alcolico e quindi adatto per essere trasportato. Le navi greche trasportavano vino e vasellame per la sua mescita: il produttore del vino fabbricava o forniva anche i vasi vinari da trasporto. La terracotta dell’epoca si era trasformata in ceramica artistica per essere adattata meglio al rito dle servizio del vino, creando così una ricca e raffinata gamma di vasi. I greci intrattennero rapporti commerciali anche con gli antichi popoli Iapigi visto che i primi reperti di ceramica micenea rinvenuti negli scavi archeologici di Taranto al VIII sec a.C. Dall’esigenza di riuscire a soddisfare la domanda di vino e dal bisogno di riuscire a produrlo a costi inferiori nasce l’interesse dei greci a colonizzare i territori della Sicilia, Calabria e Puglia. Appena conquistati questi territori vennero intensamente coltivati a vigna.
FONTE: L Puglia nel bicchiere di Severino Garofano 1990. in “Puglia, dalla terra alla tavola “Adda editore.
Quando i greci colonizzarono l’Italia meridionale vi trovarono già una viticoltura matura. L acarta ampelografica d’IItalia già nel IX sec a.C. ricalcava fedelmente la partizione etnica dell’Italia antica. Ognuna delle antiche civiltà che abitavano la penisola aveva selezionato le sue cultivar e le aveva diffuse nel territorio in cui era insediata. Perché si possa costituire una cultivar ossia un sottoinsieme di individui appartenenti ad una specie riconoscibili da specifiche caratteristiche morfologiche, fisiologiche genetiche, nonché da determinate attitudini alla vinificazione sono stati necessari secoli di esperienza tramandata da generazione a generazione, da questa semplice considerazione nasce la convinzione che la viticoltura italiana fosse un fenomeno precedente all’insediamento greco. All’insediamento villanoviano- etrusco corrisponde l’area di diffusione del vitigno bianco di derivazione dal Trebbiano o dal Nuragus con tutte le sue varianti genetiche (Nuragus in sardegna , Garganegea nel Veronese, Trebbiano Romagnolo in Emilia Romagn , Trebbiano spoletino e Perugino in Umbria , Verdicchio in Ancona ecc) A questo assortimento genetico fa riscontro un modo di allevamento delle vite con sostegni vivi e morti che stanno ad indicare una coltivazione in promiscuità con altre colture. Questo modo di utilizzare la vite come coltura promiscua scende a Sud dell’area etrusca in Campania utilizzando un altro assortimento genetico l’Aglianico vitigno nero. Questo vitigno prende il nome di Gaglioppo in Calabria e viene allevato in coltura specializzata. Passando al settore orientale della penisola troviamo che l’area dell’etnia picena è contraddistinta dalla presenza di Sangiovese e del Montepulciano, vitigni neri in coltura sia promiscua che specializzata. La Puglia antica era contraddistinta dall’uva di troia vitigno nero diffuso nell’area Dauna, da Primitivo diffuso nella Peucetia e dal Negroamaro diffuso nell’area di influenza messapica. Oltre a questi nell’area di influenza messapica è stato selezionato un vitigno bianco che ancora oggi porta il nome del luogo d’origine “Bianco di Alessano”, tale vitigno si è poi radicato nella Valle d’Itria e nella zona di Gravina.
V. Buonassisi, B. Del Monaco, C. Liuni 1983 La Puglia dell’uva e del vino Editore Laterza. Pg 15-31. .
Duante il periodo di dominazione romana il territorio pugliese subì una ristrutturazione in funzione della politica mediterranea tipica della potenza romana, e divenne così uan regione di semplice attraversamento per i collegamenti con l’Oriente. Degradando gli antichi assetti locali si perde la fitta maglia di abitatati che fino al IV secolo a.C. caratterizzavano il territorio.Il territorio fu trasformato in ager publicus, diverse estensioni suddivise da un reticolo geometrico perfetto consentito da cardini e decumani fra loro perpendicolari e posti nella stessa distanza, dove si conservarono gli antichi proprietari furono sottoposti a pesanti tributi che impoverirono la regione. Nelle contrade attraversate dalla Via Appia la viticoltura pian piano veniva abbandonata dagli agricoltori a cui erano affidati appezzamenti "sortes" di due iugeri di estensione (mq.2520) che costituiva l'equivalente di terra che veniva arata da una coppia di buoi in una giornata. Ad un assetto di piccoli produttori si sostituì la conduzione schiavistica. La viticoltura fu attiva nella parte settentrionale della region, mentre al sud fu dato grande impulso alla olivicoltura. Nel I sec. a. C., le guerre di Spartaco e l’affievolirsi dei rapporti con l’Egeo, infestato dai pirati, spostarono al Nord dell’Italia gli interessi commerciali. L’olivicoltura e la viticoltura furono abbandonate a vantaggio della organizzazione latifondistica della coltura cerealicola e della pastorizia. Le costanti dell’economia pugliese diventano le attività pastorali e la conseguente industria della tessitura (Canosa) e della tintura (Taranto). Le campagne si spopolano a vantaggio delle città. Questo processo dura fino al VI sec d.C. Con la conquista bizantina e il collasso della organizzazione romana, la Puglia diventa piena di insediamenti rupestri. .
Il periodo bizantino non cambia non cambia sostanzialmente l’assetto del territorio. Il burocratismo di Bisanzio , attraverso la costituzione di un catasto, esige imposte sulle terre dissodate; si intensifica l’opera di dissodamento dei terreni, si diffondono le colture sostenute dal monachesimo greco (X secolo), le proprietà monastiche intrecciano complessi rapporti con quelle private. Ancora una volta a prevalere non è la viticoltura, bensì la sericoltura. Si accentua la coltura del gelso, la produzione dei bozzoli e le filature e tinture delle sete. La popolazione scende a livelli di 5 abitanti per Km2 , ciò non favorisce certo la viticoltura che invece ha bisogno di molta manodopera e di un mercato di consumatori. Nelle documentazioni di proprietà monastiche si fa menzione di vigne di 6000 ceppi (meno di un Ha) a sostegno di una coltura che, sia pure su piccole estensioni, continua a vivere. Nel X e XI secolo si riavvia un processo di rinascita agricola e si torna a privilegiare un tipo di società strutturata sul dissodamento e lo sfruttamento agricolo del territorio, il tutto però in un quadro in cui i rapporti di produzione vedevano il contadino sottoposto agli interessi del latifondista. FedericoII, permeato di cultura mussulmana fu astemio, quindi non si prodigò a vantaggio della vite.
Intorno al 1680_90 l’abate G.B. Pacichelli percorre la Puglia e descrive i suoi paesaggi agrari con dovizia di particolari nei suoi appunti di viaggio. Di Ostuni dice: “Selve assai feconde di selvaggina, e fra campi fertili di odoroso e gratissimo vino, di olio e di frumento”. Di Martina: “Si vede colma di popolo … escon fuori ne verno a scegliere nelle razze della provincia le mule… ne gode il flusso di aria squisito, e lo partecipa negli erbaggi, ha delicati castrati, e teneri verbumi, e ha frutti più dolci”. Di mesagne: “ E’ terra piana, larga, copiosa di frutti del piano, di olivi, di grano, biada, e vino”. In sintesi agli occhi dell’abate la regione non compare con una precisa caratterizzazione viticola, semmai appare più connotata con una struttura agricola estensiva, rivolta alla coltura olivicola e mandorlicola, che, insieme con la cerealicoltura e la pastorizia, danno la possibilità di una gestione capitalistica del territorio. .
Malgrado lo scarso spazio che le fosse stato riservato la cultura della vite si conservò nella cultura dei contadini. La coltura fu riproposta nel momento in cui si crearono le condizioni per un più proficuo uso della terra. Nel XVII secolo la liberalizzazione della terra creò una classe di borghesi che attesero alla coltivazione della vite attingendo al patrimonio di conoscenze dei contadini e che, aggregandosi in vario modo con essi, crearono una viticoltura capitalistica disciplinata da un ferreo rapporto contrattuale. Le colonizzazioni a miglioria, le compartecipazioni a vario titolo furono disciplinate, e ne fanno fede gli innumerevoli atti della prima metà dell’Ottocento. In questi rapporti il partecipante contadino entrava in tutta la dignità delle sue conoscenze e competenze tecniche, era un socio del padrone. Nacquero così gli esperti potatori che ancora oggi sono un patrimonio tecnico esclusivo della regione.
La vite rischia l’estinzione nell’800 a causa di 3 malattie provenienti da oltreoceano. La prima è l’oidio che in Europa compare nel 1845, a Morgate in Inghilterra e si diffonde rapidamente in Francia, Italia e Spagna. Il rimedio viene dalla stessa Inghilterra, dove un giardiniere appena un anno dopo la comparsa della malattia scopre che essa può essere controllata mediante l’uso dello zolfo. Non è stata ancora vinta la battaglia contro l’oidio che arriva in Europa la fillossera, un afide che attacca l’apparato radicale della vite Europea causando la morte della pianta. Nel 1879 la fillossera arriva in Italia. La fillossera sarà sconfitta ricorrendo all’innesto su vite americana resistente all’afide. Nel 1879 compare nella francia meridionale la peronospora che sarà controllata con l’uso del rame e della poltiglia bordolese. Mentre la viticoltura europea vive un momento di grande crisi da noi si piantano nuovi vigneti in quanto la coltura dimostra di essere redditizia e richiesta. Nel 1910, mentre l'olivicoltura pugliese era in crisi, particolarmente grave nella zona di Lecce, nel territorio tarantino la viticoltura conosceva uno stato di grazia, infatti una stima dell'epoca, calcolava un reddito medio del vigneto intorno a 436 lire; mentre nei comuni murgesi, cioè nel cuore della zona di maggiore impulso alla viticoltura, si superavano le 700 lire e in qualche caso anche le 1000 lire di reddito. Migliaia di ettari furono trasformati in vigneti, solo a Martina Franca dei 28000 ettari di tutto l'agro comunale ben 10.000 alla fine dell'800 furono trasformati in vigneto e distribuiti fra 8000 proprietari.
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